L’IMPORTANZA DI CONOSCERE IL PROPRIO TARGET
Intervista ad Andrea Goretti e Giuseppe Saccà, CEO di Eagle Pictures e Eagle Original Content.
In questo periodo si parla molto di cambiamenti nei contributi pubblici, soprattutto per il tax credit. Secondo voi, cosa sarebbe importante mantenere della legge attuale e cosa si può migliorare?
Andrea Goretti: Il tax credit è stato importantissimo per sviluppare la nostra industria, non sempre è stato usato in maniera perfetta, ma penso che oggi si sta cercando di capire quello che non va e di correggerlo. So che la mia è una voce fuori dal coro, perché tutta questa preoccupazione dei tagli non la vivo come un grosso problema, se nel farlo si interviene per migliorare il sistema. 15 anni fa l’industria funzionava senza tax credit e anche quando è stato introdotto era al 15%. Il tax credit ha portato a uno sviluppo della produzione, ma sono stati realizzati troppi contenuti che non hanno avuto un ritorno di pubblico, quindi il taglio accompagnato a un controllo e una diversa gestione è accettabile, in un momento storico in cui tutti dobbiamo fare dei sacrifici.
Secondo me quello che non dovrebbe essere toccato è il tax credit per le produzioni internazionali e non lo dico perché Eagle è impegnata nelle produzioni esecutive. Ma visto che si sostiene sempre che il prodotto che riceve il sostegno pubblico deve avere un’uscita nelle sale ed essere distribuito bene, è evidente che il 99,9% delle produzioni internazionali soddisfi questi criteri. Dobbiamo fare attenzione, perché Paesi come la Spagna, la Francia, il Regno Unito o le nazioni dell’est Europa stanno aumentando le risorse in questo senso.
Quindi, se questo incentivo dovesse essere eliminato, sarebbe un disastro per la nostra industria. Pensiamo al caso di The Equalizer 3, di cui eravamo produttori e che è stato girato alla fine del 2022 in Italia. A convincere Sony a produrre in Italia è stato il nostro Presidente, spingendoli a trasferire la storia, che doveva essere girata in Gran Bretagna, e questo ha portato circa 80 milioni di dollari spesi in Italia. E’ chiaro che una parte vengono restituiti e quindi si aiuta una società americana, ma questo si compensa con i contributi dei lavoratori italiani impiegati. Sono stato a novembre sul set sulla costiera amalfitana e non c’era mai stata tanta gente in quel periodo. La stessa cosa è capitata in Sicilia con White Lotus. Per continuare a poter realizzare queste operazioni, è fondamentale avere certezze del quanto e del quando. Non sto dicendo “diminuite il tax credit”, ma non mi preoccupa tanto il taglio, che si può accettare se ci sono delle regole precise.
Giuseppe Saccà: E’ importantissimo quello che ha detto Andrea rispetto alla certezza delle regole. Prima di far parte di Eagle, ero in una multinazionale francese ed era molto difficile spiegare a CEO inglesi o CFO francesi che la legge non sarebbe stata annullata all’improvviso. Gli altri Paesi si stanno attrezzando per garantire anche più di quello che stiamo offrendo noi. Quindi, bisogna fare attenzione, perché sono stati raggiunti dei livelli importanti e rischiamo di vanificare il lavoro svolto fino a oggi. Per quanto riguarda invece i contributi selettivi, ho una posizione radicale. A mio avviso, dovrebbero andare solo a opere prime, seconde e terze. Da quel momento, tutto il resto della produzione deve avere una ragione di Mercato. Produciamo tante opere prime, che magari hanno difficoltà a rimanere in sala, tanto che il pubblico non ha la percezione che il film sia uscito. Bisogna individuare degli strumenti che consentano di tenere in sala queste opere, per continuare a sostenere la ricerca di nuove voci e talenti. In effetti, un altro problema della nostra industria è il mancato ricambio di registi, sceneggiatori e attori. Se il sistema e chi legifera non intervengono, non avremo degli artisti in grado di prendere il posto di chi li ha preceduti.
In questo senso, si parla molto di cosa può funzionare al cinema adesso. E’ possibile che una maggiore attenzione a certi target (come gli under 40 e il pubblico femminile) possa essere una soluzione?
A.G.: Noi abbiamo la fortuna di lavorare in un mondo meraviglioso, ma alla fine siamo un’industria e nessuna industria si può permettere di produrre qualcosa senza prima capire quali sono le esigenze del Mercato. L’imprenditore prima di iniziare un’attività deve fare ricerche sul Mercato e le sue dimensioni, così come conoscere il proprio target. Per esempio, anche se è un fenomeno che dura da anni, quest’anno abbiamo avuto l’esplosione dei film horror. Hanno ottenuto tutti dei risultati importanti e noi ne abbiamo distribuito alcuni, in particolare Saw X, il decimo di una saga storica. Con Spyglass abbiamo prodotto Scream 5 e 6, e adesso loro hanno confermato la produzione del settimo. Quindi, c’è un pubblico che ama gli horror? Sì. E quanti horror produciamo in Italia? Praticamente nessuno. Noi produciamo anche dei film molto costosi, ma per un pubblico locale. Gli americani sono abituati a realizzare delle grandi produzioni, ma a differenza nostra hanno una visione del mondo. E se poi non riusciamo neanche a capire qual è il pubblico di riferimento, è grave. Secondo me, stiamo sperperando delle risorse importanti.
G.S.: L’industria deve domandarsi cosa vuole il Mercato. Il nostro settore è complesso perché, come diceva un grande produttore americano, l’ambizione è dare al pubblico qualcosa che ancora non sa che gli piacerà. Devi lavorare per spiazzare lo spettatore e non è un caso che titoli come Barbie e C’è ancora domani siano stati delle belle sorprese al botteghino. In quei film c’è una risposta alla tua domanda, un target di millennial che non hanno storie che li rappresentino o narratori coerenti con questo pubblico. Quando Gabriele Muccino vent’anni fa con L’ultimo bacio ha raccontato quella generazione di trentenni in crisi, era un regista trentenne e coerente con quella generazione, così come lo erano quegli attori, che ancora oggi sono le nostre star, dando vita a un film che è diventato un campione d’incassi. Qualche anno prima, aveva fatto la stessa cosa con Come te nessuno mai. Aveva in casa suo fratello Silvio, ha studiato quel pubblico e ha realizzato un altro film importante, aprendo un filone che ha portato a produrre tanto cinema per quel target. Ancora prima, gli sceneggiatori de Il tempo delle mele si sono messi a studiare i loro figli, perché si erano accorti che erano cambiate le abitudini, e hanno messo al centro del racconto quelle esigenze. C’è una prateria sconfinata di pubblico che non si sente rappresentato, perché spesso il cinema o le piattaforme si rivolgono sopra o sotto quel target. C’è un rimosso incredibile ed è la generazione dei millennial.
Adesso che il cinema americano non offre tanto prodotto di alto livello per le conseguenze degli scioperi, sento dire che il cinema italiano potrebbe sfruttare questi spazi. Ma se il cinema italiano non lavora su questi target e su quelle esigenze, non mi aspetto che un appassionato di film commerciali americani vada a vedere un film d’autore italiano…
A.G.: Quando è scoppiato lo sciopero, anche perché nessuno aveva consapevolezza di quanto potesse durare, non credo che i produttori italiani abbiano pensato di poter colmare il buco lasciato dagli americani. Dopo aver assistito a Sorrento a varie presentazioni, non mi pare ci sia nessun film italiano che possa compensare questo buco. D’altronde, se non c’è stata pianificazione e consapevolezza di cosa il pubblico vuole, non si può improvvisare: è sempre il problema di non fare attenzione ai target. Noi di Eagle Pictures nel 2023 abbiamo avuto qualche problema nella programmazione causata dal ritardo nella consegna di alcuni film, anche come conseguenza dello sciopero, ma non tutti i mali vengono per nuocere e se da una parte è vero che ci sarà una mancanza di prodotto, in parte, almeno per quanto ci riguarda, il problema verrà mitigato da titoli che dovevano uscire nel 2023. In effetti, noi abbiamo dei film che erano previsti tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo, come The Warrior, il remake del Corvo, Borderline – Linea di confine di Lionsgate e In the Lost Land e che rappresenteranno una parte importante della nostra offerta del 2024.
Peraltro, mi sembra che la riduzione dei film cinema da parte delle major sia strutturale, anche al di là dello sciopero…
A.G.: Che le major negli ultimi anni abbiano ridimensionato i budget di produzione è un dato di fatto. E ne abbiamo una controprova quando, come distributore, andiamo ai mercati a comprare i film. Una volta la concorrenza era tra distributori italiani, quindi locale, mentre oggi fai un’offerta che ritieni interessante per la sales company, ma ti rendi conto che loro stanno aspettando di chiudere un worldwide deal, magari con Netflix, Amazon o anche delle major. Piuttosto che investire 200 milioni su un loro prodotto, preferiscono spenderne 80-100 e togliere dal Mercato un film, anche in fase di sceneggiatura.
G.S.: Il problema è che sul versante editoriale andiamo a un’altra velocità, se non proprio in un’altra direzione. Il pubblico sta cambiando le sue abitudini, io sento spesso dire che c’è un pubblico che va in sala e un altro che utilizza le piattaforme. Io invece credo che ci sia un pubblico unico e che si accende in maniera diversa, con prodotti che è disposto a vedere solo sulla piattaforma e altri che li spingono ad andare in sala. Forse noi non abbiamo lavorato abbastanza su quei target e su quali sono le modalità di accensione. Sento che alcuni generi sono appannaggio solo della piattaforma, come la commedia, e questo mi spaventa molto, visto è il genere in cui siamo sempre molto competitivi, perché non è fondamentale il budget, quanto l’idea che hai. Mi domando anche quanto i nostri campioni della commedia siano riusciti a rinnovarsi e quanti nuovi campioni della commedia siamo riusciti a far crescere, io ne vedo pochi. Questo è un problema endemico, su cui la nostra industria deve riflettere molto.
Per tornare al discorso se possiamo sopperire alla mancanza di prodotto americano, il problema è che quando il mercato ci offre queste occasioni, noi non siamo attrezzati per sfruttarle. La pandemia ha provocato una crisi, ma come tutte le crisi, poteva essere un’occasione, e quella è stata un’occasione mancata, perché non dovendoci misurare in maniera forte con il botteghino, potevamo esplorare nuovi territori e cercare nuovi talent. Talvolta abbiamo avuto dei casi importanti, come Lo chiamavano Jeeg Robot, che dimostra l’esistenza di un pubblico che vuole quel tipo di prodotto. Quindi, avremmo dovuto rimanere in quel territorio, cercando delle nuove storie e dandole al pubblico. Bisogna essere consapevoli che si faranno degli sbagli, ma quando riesci a ottenere un risultato importante, ti ripaga anche degli errori che hai fatto in precedenza. Il problema è non organizzarsi in anticipo per raccogliere le opportunità che si possono presentare.
In effetti, soprattutto in questi tre anni, per i grandi contributi pubblici e la bolla delle piattaforme che ha portato a investimenti ormai insostenibili, mi chiedo se l’industria italiana sia riuscita veramente a sfruttare questa grande mole di risorse per creare qualcosa che rimarrà. O se invece è stata un’occasione mancata, in cui magari alcune aziende hanno utilizzato molto gli investimenti pubblici e privati, ma senza dar vita a qualcosa di stabile. Anche perché alcuni fondatori stanno abbandonando le aziende che hanno creato…
A.G.: Speriamo non sia stata un’occasione persa, ma che si sia sprecato del tempo e non sfruttato nel modo migliore le ingenti risorse a disposizione, è un dato di fatto di cui tutti sono ormai consapevoli. D’altra parte, questa è un’industria di persone. Io ho lavorato 25 anni nel gruppo Fininvest/Mediaset e sono stato coinvolto nell’operazione Endemol, ero uno dei tre consiglieri che rappresentava Mediaset. Endemol era una società fatta di persone, nata dall’aggregazione di tanti produttori locali. Se una persona andava via creava dei problemi? No, perché era stato creato un network. Il Grande fratello, inventato da John De Mol, era stato messo a disposizione di tutte le società del gruppo. Quindi, chi sta sopra deve creare una struttura che vada avanti in qualsiasi situazione. Le realtà italiane sono piccole e non c’è una major company, quindi se viene meno il fondatore, l’impresa soffre.
G.S.: Quasi tutte le società di produzione italiane sono delle società familiari di fatto o comunque hanno quella fisionomia, aziende che poi magari vengono acquisite da un gruppo internazionale. Quindi, è naturale identificare la società con il produttore.
Mi chiedo se, al di là delle persone, alcune aziende non abbiano puntato troppo su prodotti autoriali e serie cosiddette ‘prestige’. Invece, se penso a una realtà come Lux Vide, i loro prodotti hanno un target ampio e funzionano benissimo in Italia, ma magari vengono venduti bene anche all’estero, quindi stanno costruendo qualcosa di solido e che è in grado di andare avanti anche in caso di abbandono da parte dei fondatori…
A.G.: Noi eravamo soci di Lux Vide fino a quando non è entrata Fremantle. Luca e Matilde Bernabei sono molto bravi in ruoli diversi e hanno portato avanti un progetto molto importante, creando una linea editoriale solida. Ma quante aziende possono dire di aver fatto lo stesso ed essere nelle condizioni di sostituire chi c’è a gestirle senza traumi? Oltre a Lux Vide, sono poche in Italia…
G.S.: Anche Cattleya è un’azienda che ha un sistema e una dimensione che le consente di andare avanti al di là dei suoi fondatori. Comunque, hai centrato una delle fragilità del nostro sistema industriale. Noi veniamo da vent’anni con due grandi realtà dominanti come Rai e Mediaset, quindi ci portiamo dietro problemi industriali che altre nazioni non hanno, cosa che ha permesso loro di creare delle aziende che hanno avuto successo nel mondo e hanno acquisito altre società straniere, dando vita a un management sopravvissuto ai fondatori. Noi non siamo meno bravi, ma ci portiamo dietro dei problemi che non ci fanno giocare la partita sullo stesso piano dei nostri competitor internazionali.
A.G.: Una delle caratteristiche italiane è di avere la piccola e la media impresa che realizza prodotti di grande qualità e riesce a conquistare una leadership a livello mondiale. Però, a differenza di altre industrie, sono poche, forse nessuna, le società italiane di produzione di contenuti che hanno conquistato il mondo. Se guardiamo le nostre realtà produttive, molte sono state acquisite da gruppi internazionali, come Banijay, Freemantle, Mediawan, ITV o Federation, mentre nessun “imprenditore italiano” è riuscito, o ha provato, a creare un gruppo aggregando produttori locali e internazionali, e non è per mancanza di talenti, visto che al vertice di alcune di queste realtà ci sono manager italiani, ma piuttosto culturale. A volte qualche produttore italiano ha pensato che essere comprato da uno straniero gli avrebbe permesso di esportare il suo prodotto all’estero e quindi di allargare il suo Mercato. In realtà, non è l’azionista che ti fa conquistare il mondo, è il prodotto che realizzi. L’illusione di qualche produttore italiano è stata di pensare “non sto vendendo, sto entrando in un gruppo che mi permetterà di ampliare la mia attività”. Purtroppo, non mi pare che questo sia avvenuto.
Si parla molto della difficoltà per i film cinema di chiudere i budget per una crisi della finestra pay one. Mi chiedo se c’è veramente una crisi per quanto riguarda i numeri assoluti di acquisto o se magari il problema è l’eccesso di produzione…
A.G.: Credo che l’industria sia cambiata, ma c’è anche un eccesso di prodotto che non riesce a essere assorbito. Qualche tempo fa, Sky riusciva ad assorbire quasi integralmente l’offerta, cosa che adesso non riesce più a fare. Ma prima ancora c’era stata la crisi della free: Mediaset, ad esempio, da anni non ha più i film come elemento centrale della propria programmazione. Alla fine, anche Netflix e Amazon sono pay 1, quindi forse l’offerta di pay 1 si è arricchita, dipende dai punti di vista. Insomma, la capacità di assorbimento non è sufficiente più per l’eccesso di produzione che per la contrazione dell’offerta PAY, quindi gli operatori hanno più scelta e sono diventati più selettivi e, inevitabilmente, ci sono delle difficoltà.
Aggiungerei che se produciamo tanto cinema d’autore, che è proprio quello che le piattaforme non vogliono per il loro pubblico, è difficile poi venderlo. Anche Rai nella scorsa stagione, dai numeri che ho analizzato, ha portato in prima visione solo una decina di film italiani in prima visione…
G.S.: E’ un problema editoriale, perché oltre all’eccesso di produzione, dipende soprattutto da che cosa produci. E’ vero, sono cambiati i tempi e le abitudini del pubblico, però il problema rispetto ad altre realtà omologhe europee è legato alle scelte editoriali.
A.G.: Sono anni che il Mercato sta cambiando, prima c’è stata un calo della free, adesso della pay. Ho lavorato tre anni a Telecinco, in Spagna era la free che trainava il mondo del cinema per quanto riguarda l’acquisto dei diritti, non la pay, e ancora oggi, parlando con i distributori spagnoli, sembra essere così. Non saprei perché c’è questa differenza con l’Italia, anche loro hanno realtà pay importanti, ma forse dipende dall’impostazione della televisione free, che ha mantenuto in primo piano la programmazione dei film.
G.S.: Penso che un film come C’è ancora domani non avrà difficoltà a trovare le sue finestre di sfruttamento, intanto ha già Netflix…
A.G.: Io non vorrei che quel successo faccia credere che abbiamo risolto tutti i problemi, ogni tanto sento un ottimismo eccessivo.
G.S.: A mio avviso, rappresenta una luce fortissima sui problemi del cinema.
A.G.: è un segnale positivo e dimostra che se c’è il prodotto giusto la gente va in sala. Però non abbiamo risolto tutti i problemi del cinema. Novanta milioni di box office sono stati fatti da tre film, Barbie, Oppenheimer e C’è ancora domani, se andiamo a vedere gli altri non è che ce ne siano molti che hanno incassato grandi cifre…
In effetti nel 2023 C’è ancora domani è stato l’unico film italiano a superare i 5 milioni nel corso dell’anno…
G.S.: Io sono sempre portato a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma non può essere un film a risolvere tutti i problemi, anzi mette in evidenza che c’è un problema endemico in merito alle scelte sul prodotto e gli investimenti. Il film di Paola Cortellesi ti dice che c’è un pubblico preciso, in questo caso fatto di donne under 40 ma non solo, e che cerca un codice preciso come il dramedy, che sta dominando la produzione seriale mondiale da qualche anno. Mi domando quanto la nostra industria sia coerente con questa tendenza…
A.G.: Se riesci a catturare quel pubblico, le donne poi porteranno al cinema anche gli uomini. Bisogna capire cosa vuole la gente e studiare i dati. E magari si scoprirà che il pubblico desidera una cosa e tu invece produci qualcos’altro…